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Parchi in Italia

I parchi in Italia

Nel panorama europeo, l'Italia spicca certamente per varietà di paesaggi e di ecosistemi, per ricchezza floro-faunistica e diversità biologica, per quantità e qualità delle visibili tracce della storia e della cultura dell'uomo. La sua stessa posizione geografica, posta in mezzo al Mediterraneo quasi come un ponte tra Europa e Africa, con un'orografia assai mossa ed una paleogeografia complessa che spiegano e giustificano l'origine delle sue diverse correnti di popolamento floro-faunistico (per cui esistono in Italia, tanto per fare un esempio, non meno di 5.600 specie di piante, di cui oltre 700 endemiche, contro, per dire, le sole 2.300 della Polonia o le 950 dell'Irlanda) e, dall'altro, la straordinaria stratificazione, su questa ricchezza ambientale di base, di una storia umana antica e prestigiosa, fonte di un patrimonio storico-artistico, nonché di tradizioni locali suggestive e differenziate, quali forse al mondo non esistono eguali, chiariscono come il nostro paese, certo molto più di altri, necessiterebbe di un adeguato e articolato sistema di aree protette, a salvaguardia di questo immenso patrimonio di natura e di cultura.

Almeno agli inizi, l'Italia non aveva tutto sommato mancato questo appuntamento, tanto è vero che su scala europea era stata tra i primi paesi a dotarsi, già agli inizi degli anni Venti, di due parchi nazionali: Abruzzo e Gran Paradiso, ufficialmente istituiti tra fine 1922 e inizio 1923, non a caso su territori che erano stati per l'innanzi delle riserve reali di caccia, a tutela di alcune specie animali particolarmente vistose e preziose, come l'orso e il camoscio d'Abruzzo nell'Appennino centrale, e lo stambecco delle Alpi nel Gran Paradiso.

Dopo queste prime e importanti realizzazioni, però, il nostro paese ha purtroppo fatto registrare una lunga stagione di assenza, abulia, mancanza o confusione di idee. Mentre altre nazioni europee, pur partite ben dopo di noi, hanno nel corso del secolo messo in piedi sistemi importanti e coordinati di aree protette, tale processo ha avuto in Italia una lunghissima battuta d'arresto. Già negli anni del Fascismo, all'aggiungersi nel 1934 del Parco Nazionale del Circeo e nel 1935 di quello dello Stelvio, si contrappose infatti, sinistramente e contraddittoriamente, il quasi naufragio dei due parchi preesistenti, la cui gestione veniva inopinatamente tolta agli enti autonomi (sciolti d'imperio nel 1933) e affidata, invece, alla Milizia Forestale.

La guerra rappresentò un ulteriore momento di gravissima crisi. Stambecco e camoscio d'Abruzzo scesero ai minimi numerici storici (il bracconaggio imperversava infatti più feroce che mai, anche per intuibili appetiti...alimentari), e solo il coraggio e l'abnegazione di un uomo come Renzo Videsott poté assicurare nell'immediato dopoguerra la salvezza e la ripresa del Gran Paradiso; mentre per l'Abruzzo l'ente autonomo venne ripristinato solo nel 1950, pur tra incombenti concreti pericoli ambientali come la progettata (e in parte realizzata) creazione di invasi artificiali a scopi elettrici.

Gli anni del "boom" economico segnarono un ulteriore momento di nuova e gravissima crisi, soprattutto per il Parco d'Abruzzo, sul quale si appuntarono rapaci le mire della peggiore speculazione edilizia: che, approfittando della debolezza dell'ente, giunse a farne rimuovere il direttore (il pur bravo Saltarelli), abbandonandone la gestione in mani a dir poco incapaci. Nel Gran Paradiso, invece, dilagava piuttosto un assurdo bracconaggio alla grande fauna alpina (stambecco e camoscio), esercitato soprattutto in quella Valsavarenche che errate e interessate interpretazioni di comodo (a lungo pavidamente accettate dal Parco medesimo) avevano di fatto escluso dai confini dell'area protetta, facendone un assurdo budello di penetrazione nel corpo stesso del parco, e un'insidiosissima trappola per i poveri animali, costretti d'inverno a scendere dalle alte quote e ad offrirsi così ai fucili dei cacciatori.

Specialmente la battaglia per il Parco Nazionale d'Abruzzo segnò, per così dire, uno spartiacque, di fronte al quale istituzioni, gruppi e singole persone furono necessariamente costrette a confrontarsi, a collocarsi di qua o di là, e ad assumersene le relative e conseguenti responsabilità politico-culturali. All'inizio, quando i due schieramenti (pro o contro il parco) erano entrambi dichiarati ed evidenti, su questi temi si confrontarono davvero due Italie diverse (come appunto scrisse Antonio Cederna, con riferimento a Pescasseroli e alla questione del Parco d'Abruzzo), e si formarono e irrobustirono, culturalmente parlando, schiere di giovani ambientalisti. Poi, con il lento progredire della cultura ambientale nel corpo della società, tutto si fece, paradossalmente, più difficile, giacché se a parole nessuno più osava dichiararsi contrario ai parchi, le resistenze si fecero di fatto più subdole, mascherate, sotterrane.

Non stupisce dunque se, in questo clima culturale, la strada della legge quadro sulle aree protette sia stata così lunga e difficile: durando, con alterne vicende, e con ricorrenti alternanze di speranze e docce fredde per tanti ambientalisti, quasi un quarantennio. Come vedremo, anzi, essa non può dirsi ancor oggi veramente conclusa.

Senza dimenticare l'intuibile fatto che un'area protetta di per sé tocca e mette in pericolo concretissimi e rilevanti interessi economici contrari (cosa che già da sola spiega molte delle tenaci resistenze), una questione si è a lungo messa di traverso in Italia, rispetto ad una effettiva politica di parchi nazionali, sul piano colto dei principi giuridico-politici: quella che potrebbe definirsi come il grande "equivoco del decentramento", non a caso a lungo messo avanti, da più parti e in una quantità di occasioni, a duramente contrastare sia nella teoria che nella pratica l'idea stessa di parco nazionale.

Un passaggio importante e forse risolutore di questo dibattito fu rappresentato dal Convegno "Strategia 80 per i parchi e le riserve d'Italia", organizzato a Camerino, nell'ottobre 1980. Questi nodi giuridico-istituzionali vennero forse per la prima volta debitamente sviscerati, e la palla fu per così dire rilanciata in chiave propositiva (anziché puramente difensiva), additando alle forze politiche e all'opinione pubblica tutta l'obiettivo di arrivare al più presto ad assicurare, attraverso un coordinato sistema di aree protette, la opportuna tutela di almeno il 10% del territorio italiano. Il Convegno si chiuse con una "mozione conclusiva" tutto sommato molto equilibrata, che rilanciando a tutti i soggetti istituzionali appunto la "sfida del 10%", sollecitava l'impegno e la responsabilità delle Regioni e degli enti locali, non meno che dello Stato, per il raggiungimento di tale obiettivo.

Sull'onda forse dei risultati di quel convegno, ma certo anche per il graduale mutamento del vento culturale e politico, a seguito anche delle prime delusioni dell'ordinamento regionale, dell'istituzione (negli anni Ottanta) di un Ministero dell'ambiente, la legge quadro tanto discussa e tanto attesa venne alfine approvata definitivamente nel dicembre 1991 (Legge n. 394/91). Nel complesso, diciamo subito, una buona legge.
Attualmente, a poco più di 11 anni dalla promulgazione della citata legge quadro, il Sistema Nazionale delle Aree Naturali Protette si compone di 758 aree, tra le queli 21 parchi nazionali, 23 aree e riserve naturali marine, 99 parchi regionali, 332 riserve naturali regionali, 137 altre aree naturali protette regionali e un'area marina di interesse internazionale, il santuario dei mammiferi marini, per una superficie totale superiore al 10% di territorio nazionale protettto, auspicato nel Convegno di camerino. 

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